La realtà di questi luoghi si rivela a poco a poco, con la stessa lentezza che caratterizza il mio apprendimento.
L’altro giorno mi sono spinto cautamente verso il luogo dove di mattina vedevo sostare i camion e ho visto subito venirmi incontro due uomini. Ho pensato che forse avevo sconfinato e che quei due fossero agenti di polizia. Per prevenire contestazioni giunto ad un tiro di sasso ho chiesto se potevo andare ancora avanti e uno di loro mi ha indicato, o ho capito io, che potevo arrivare fino all’altezza di un relitto di yacht che giace rovesciato su un fianco nell’acqua bassa della barriera, trecento metri da me, poi sarei dovuto tornare.
Io che non voglio cercar grane, ho ubbidito, sono arrivato al punto e son tornato indietro.
Non ho capito il senso di questo divieto, ma è difficile che io capisca il senso dei divieti in genere. Quindi la cosa finisce nel cestino del non cale. Ma ora mi viene in mente che nel 1977 c’è stata la guerra in questi luoghi e quindi forse c’è ancora il pericolo di ordigni inesplosi, non sarebbe poi così strano: non c’è una conchiglia che sia intera, anche quelle di grosso spessore che per romperle serve appunto un carrarmato, sono scheggiate, spaccate a metà o frantumate in mille pezzi.
È un deserto contaminato dall’uomo, si vedono semisepolti residui industriali, scarpe vecchie, bidoni, pezzi di ferro contorti, incrostati dalla ruggine e sinistri e pericolosi frammenti di filo spinato affioranti ovunque, o riuniti e ammassati in grandi matasse aggrovigliate.
Ma quel che c’è di grande e di bello sono la luce, lo spazio e il silenzio che conferiscono dignità di relitto a ciò che in altro contesto è solo spazzatura.
Guardo lontano, ma sto anche attento a dove metto i piedi per via del filo spinato . La gamba rotta non da più problemi e mi da grande gioia usarla chiedendole qualcosa in più ogni giorno.
Mi sono avventurato nella direzione opposta, ho girato a sinistra e, passando il Sea Club, il pontile e il posto di guardia del confine dell’hotel, sono andato oltre, in esplorazione di un’area nuova, nella terra di nessuno, incuriosito dalle strutture abbandonate e spettrali di un ennesimo hotel in costruzione dietro le quali, ogni mattina, vedo inspiegabilmente atterrare un elicottero che fa la spola tra l’isola di Tyran, che sta di fronte come il miraggio d’una terra promessa e che dicono ospiti invece una base militare americana, e questo posto dove non c’è niente. L’elicottero arriva spedito, in linea tesa attraversando il braccio di mare dove riposa il grande relitto di una petroliera, squarciata a metà ed adagiata su un fianco ormai da trent’anni, che resiste con la forza del ferro all’inesorabile assedio della salsedine e all’impeto delle onde. Ancora lontano, l’elicottero già incombe frustando l’aria in un crescendo minaccioso da incursore, descrive un semicerchio avvicinandosi controvento al cantiere, scompare atterrando dietro di esso e subito dopo riprende quota e riparte, carico di una benna, per tornare da dove è venuto, su e giù per tre, quattro volte. Immaginavo trasportasse acqua, come i camion gialli del Sea Life e ho voluto vedere se ci fosse acqua da qualche parte li, nel cantiere, ma non ho trovato niente. Per cui elicottero e cantiere sono rimaste delle domande senza risposta e la cosa, persa in quello spazio vuoto e dimenticato, nella mia immaginazione visionaria si è tinta di una sfumatura surreale e misteriosa, bella, per qualche verso. Io ho cinquantaquattro anni, ma la fantasia è ancora adolescente e così non sono mai solo perchè padre e figlio dialogano tra loro incessantemente, parafrasando, in un sacrilego accostamento, relazioni misteriche.
Immerso in quest’avventura son andato avanti, su e giù per le dune di terra arida e polverosa con la vista che spaziava fino alle montagne a sinistra e a destra sul mare. Qua e là, piantati nella sabbia, cartelli scritti in arabo e in inglese vietavano il transito con la provocazione d’una porta chiusa nel deserto: divieti scaduti o incomprensibili come quello di non procedere oltre il relitto, ridicololi come la bandiera “della conquista” americana della luna se non fosse per quei presidi militari o di polizia che anche qui, come dall’altra parte, dominano le alture con mansioni non ben chiare di grande fratello. Forse se faccio pipì mi arrestano e se oltrepasso il cartello mi sparano per tutti i loro buoni motivi... chissà mai, questi egiziani....
Poco male, con tutto lo spazio che c’è. Il mondo è grande, penso per mia consolazione tutte le volte che un divieto mi sbarra la strada: mi scanso, ci giro intorno. Il mondo è grande... si.. però, ripensandoci, è tutto abitato.. ogni centimetro quadrato è proprietà di qualcuno e tra qualche anno m’immagino che dove ora non c’è che polvere e silenzio sorgeranno uno sull’altro gli hotel. La fuga dalla civiltà ha i giorni contati: qualsiasi fuga, anche la mia.
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