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percorso professionale
A N T O L O G I A
Io, della antica confraternita degli incazzati (di Max Loy)
“…Un giorno, per sbaglio, ho fatto un frego veloce, poi un altro e con calcolo un altro ancora, ho aggiunto una macchia rossa e l’ho tagliata con un graffio ed all’istante ho capito che era nato un quadro.
Ho guardato Dio, e Dio approvava.
Allora mi sono abbandonato alla felicità dell’evaso e, senza voltarmi indietro, ho oltrepassato il mio orizzonte.
Cos’è la bellezza?
Una sorpresa, ma quando c’è, se ne accorge anche un bambino”.
Forse dovrei porre una premessa per spiegare le cose che dirò. Dovrei spiegare, con profusione di dettagli, quali sono state le domande che mi son posto circa il senso delle cose, quali i fatti che hanno plasmato il carattere e dare anche conto di ciò che ho creduto fossero le aspettative degli altri nei miei confronti, specialmente per ciò che concerne il mio ruolo pubblico di artista: domande e aspettative che mi hanno messo fin dall’inizio con le spalle al muro, inchiodandomi alla responsabilità di risposte adeguate e coerenti che non ho voluto eludere con l’astuzia.
Ma sarebbe un discorso troppo lungo.
Dico solo che non ho preso alla leggera la vita e sono sempre stato consapevole dello scorrere del tempo, meditando il suo mistero fin dentro i secondi, con lo sguardo teso fino all’estremo suo limite, esasperando lo spasimo di un respiro infinito.
E’ seguito il numero dei giorni, in lunga teoria, con tutte le possibili ed immaginabili promiscuità che hanno, da una parte ingarbugliato la matassa del capire e dall’altra evidenziato in rosso i punti cardinali della terra.
Con buon diritto, a 57 anni, posso dire, come tutti, che sono stanco ed anche disilluso, ma, soprattutto, mi sento arrabbiato.
Chiarisco in due parole: odio lo spreco.
Intendo per spreco la perversione di gestire le opportunità in modo distratto, sciatto, stupido e in un crescendo di gravità, rovescio.
Il conflitto nasce da qui: il mondo va alla rovescia, a partire dal sacchetto della spesa che, posato a terra, non solo non sta dritto come ci si aspetterebbe, ma si ribalta sempre dalla parte sbagliata.
Però ho capito una cosa, ho desunto dall’esperienza che la Storia ha un Responsabile, l’unico “responsabile” che tiene il timone di questa nave di folli.
Tempo fa, forzando il mio carattere schivo con quel po’ di fisioterapia necessaria per non arrugginire gli ingranaggi dei rapporti sociali, avevo preso carta e penna ed avevo indirizzato una lettera ad un esponente culturale della città in cui vivo:
“ ….Stimato professore, non ci siamo mai frequentati, chissà perché.” E mi ero fermato a pensare al perché non ci eravamo frequentati, ma ricordandomi d’essere un misantropo, avevo fatto una smorfia con la bocca, liquidando la domanda “…. In qualche modo siamo a bordo della stessa nave” avevo ripreso a scrivere “più probabile sia soltanto una scialuppa di salvataggio, che però ci ha abituati a tenere lo sguardo lontano, sull’orizzonte, attenti a decifrare i segni propizi o nefasti di questo eterno andare incontro ad un destino enigmatico.
È il grande tema della vita ed è il grande tema dell’arte: il Viaggio.
Ci si incontra e ci si chiede: - io son qui, tu dove sei?-
E non è mai una domanda oziosa.”
Nutro una ragionata diffidenza per gli “esponenti culturali” in genere, ma posso sempre felicemente scoprire d’avere torto e poi confesso che sono veramente “a corto” d’interlocutori perché il mio linguaggio chiede una certa “iniziazione”, quel minimo di sensibilità, di cultura e di attenzione che non è possibile trovare nelle conversazioni ordinarie, seduti al tavolino del bar.
Per me è tipico: tutte le volte che mi costringo ad uscire dal mio riserbo cerco esclusivamente intese a questo livello: pregnanza come antidoto alla leggerezza, perché di leggerezza non son mai riuscito a saziarmi e degli uomini non mi interessa altro che il destino comune, qualcosa di più e di diverso dalla curiosità e di molto distante dai convenevoli.
Infatti ho esperienza che si può diventare intimi con una sola stretta di mano, occhi negli occhi, nella consapevolezza della fatica e della speranza del vivere, anche al di là delle opinioni, con buona volontà.
Così, dopo che l’ultimo telegiornale mi aveva scaricato sul cuore l’eterogeneo carico quotidiano di tragedie impastate con le frivolezze del gossip, quel giorno m’era prepotentemente balzata in testa la metafora dell’arca di Noè che, a ben considerare, è quanto di meglio per esprimere la comprensibilissima sensazione d’essere testimone oculare dell’ira di Dio che pesa sulle nostre giornate con una luce che lascia presagire il peggio.
La mia deformazione professionale, la prassi di ordinare il molteplice ed eterogeneo ordito di un quadro, l’abitudine alla sintesi ed alla individuazione di un centro, l’attitudine ad osservare la quotidianità in controluce sul cielo della Storia, con in mano la Bibbia come una bussola, portano necessariamente a queste logiche ed inevitabili conclusioni.
Facili profezie, accessibili ad ogni apprendista profeta del terzo millennio.
….Dunque un abbraccio tra naufraghi, un incontro tra protagonisti di una tragedia silenziosa, superstiti di un assedio infinito che costringe i più coraggiosi in trincea.
“Fatica e Speranza”, polo Sud e polo Nord, linea di partenza e punto d’arrivo, distanza antipodale da percorrere a piedi insieme, magari ognuno per la sua strada, a casa propria, nel privato, come piace a me: buon giorno e buona sera, con un sorriso di rispetto.
Questo sentirsi uniti guardando una stella è chiamato “comunione dei santi”, io mi documento.
Strada da percorrere, passi come pennellate (sono un pittore), quadri come giorni, in fila.
Briciole di pane lasciate cadere per chi segue.
Questo, detto in due parole, è ciò che ho fatto della mia vita d’artista: un’esplorazione traslata, una metafora esistenziale ed una mappa o un diario di viaggio che è testimonianza firmata.
L’arte ha un suo compito specifico, lo si capirà col tempo, davanti a certe evidenze.
Quanto a me amo l’ordine, sono fatto così. Chiamo le cose con il loro nome, distinguo la gravità dalla leggerezza ad imitazione della natura, connetto i fatti uno con l’altro senza forzarne gli incastri per scoprire in anticipo la parabola delle intenzioni, con ordinaria scienza balistica. Osservo la Storia con occhio profetico, da artista, un po’ oltre il mio naso e coltivo un talento speciale per scoprire il minimo comune denominatore della complessità in movimento chiamata vita, cioè: cerco di semplificare, di ricavare le essenze, le formule… come dire…cerco “gli Universali”, mi spiego?
È una necessità per chi fa arte, l’ho imparato dipingendo e, sempre dipingendo ho capito anche che nell’arte come nella vita valgono sempre le stesse regole.
Sembra strano, ma a molti questa cosa non torna, per molti intellettuali l’arte è amorale, cioè è aldilà del bene e del male: vive misteriosamente nell’innocenza di un’altra dimensione.
Racconto due fatti.
Un giorno, un amico mi ha invitato a tenere una breve conferenza sul tema controverso della libertà nell’arte. Sulle prime mi sono schernito, ho tergiversato perché non mi sentivo idoneo a trattare quello che vedevo essere un argomento molto impegnativo. Poi, dietro insistenza, ho accettato di dire due parole fuori cattedra e ho articolato il mio intervento circumnavigando una domanda che a mia volta mi sono fatto preliminarmente: è libero l’uomo? E qual è il luogo di questa presunta libertà?
Cioè mi è sembrato logico, prima di rispondere alla questione derivata della libertà nell’arte, di esplorare il problema a monte. E così, visto che la questione posta in questa maniera aveva tirato in ballo l’enorme disputa sul libero arbitrio, invece di un intervento da salotto bene, avevo costretto i malcapitati miei estimatori a sorbirsi un’ora di pesantissime riflessioni teologiche che toccavano solo tangenzialmente il punto di partenza. Insomma, visto che il tema lo consentiva, con un blitz avevo impugnato la mia libertà d’artista che è esattamente quella di ubbidire all’Ispirazione, cioè, per dirla evangelicamente, a Dio, piuttosto che alle aspettative degli uomini e avevo concluso il discorso con una dichiarazione categorica affermando, senza fare differenze di ruoli tra uomo e artista, che l’uomo è libero ma solo ed esclusivamente per sottomettersi volontariamente all’Ubbidienza perchè fuori dall’Ubbidienza non c’è più nulla di comprensibile, esiste solamente il non-senso dell’arbitrio che è essenza di bestemmia.
Questo, per me, era ed è parlar chiaro.
È mia prerogativa veder luce dove altri annaspano nel buio più fitto, ma costruire dal nulla piattaforme d’intesa su temi così ampi è tempo perso.
Ho colto dissensi ed irrequietezza insofferente nella sala. Nessuno si aspettava che un oscuro artista occupato a dipingere piacevolezze sensuali e garbugli colorati tirasse giù spropositi così indigesti. Forse si sarebbero attesi un atteggiamento disinibito e liberale, lontano da etiche confessionali, forse sarebbe piaciuto che recitassi la parte dell’artista maledetto che usa l’arte come alibi per l’amoralità, così come, sempre a torto, si sostiene anche della scienza.
Ma tant’è, si sa bene che sono pochi quelli che intendono l’arte e la scienza per quello che sono:
testimonianze del Mistero Trascendente.
Preoccuparmi delle aspettative della gente, comunque, ho stabilito non sia un mio problema professionale. Non sono un commerciante, non vendo niente, offro un servizio: parlo, e chi ha orecchie per intendere, intenda.
In un’altra occasione, venendomi di strada, sono entrato a curiosare in una esposizione e ho ritrovato, senza riconoscerlo, un tizio che era passato una volta nel mio studio per mostrarmi dei disegni che faceva: cose lugubri.
La sua personale era in una chiesa sconsacrata, cosa che non implica mancanza di riguardo al luogo. Su delle pedane di legno erano allineate delle composizioni tribali, una specie di sculture-totem e roba così, cose orrende e sanguinolente, messe insieme con stracci, ferri arrugginiti, plastica e chili di smalto rosso e nero.
Io guardavo, cercando di capire se esistesse un limite alla ricerca e cosa fosse arte e cosa perversione e, fattomi un’idea della cosa, mi stavo avviando all’uscita.
Rivedo la scena: mi ferma, si fa riconoscere e mi chiede un parere.
Esprimere giudizi estemporanei non mi piace e mi pesa fare commenti negativi, ma lui insiste.
- E’ arte di denuncia… - rispondo con garbo, per togliermi d’impaccio e spiego - c’è un’arte di denuncia che guarda un versante della realtà e c’è un’arte apologetica che guarda l’altro. Una vede il male e lo denuncia e l’altra il bene e ne canta le lodi. L’importante - specifico - è capire e dichiarare dove si sta guardando. -
- E dove sto guardando? - ribatte lui, alzando il mento con un’aria polemica che m’indispone: così passo al tu.
- Beh.. è evidente che stai meditando sulla cenere della vanità, guardi dentro la corruzione della morte, dentro il peccato, sezioni cadaveri…. È pericoloso il veleno della cadaverina - avverto.
- E non è questo il mondo? -
- Si, ma è il mondo senza Dio. - rispondo secco.
- Non c’è Dio. - “a rieccoci!” penso e mi chiedo se valga la pena spendere due parole o lasciarlo al suo delirio e andarmene senza rimorsi.
Poi mi ricordo che vesto “il saio della confraternita” e torno sui miei propositi:
- Ma scusa - dico - se non c’è Dio, mi spieghi a chi denunci questo schifo? Oppure non lo denunci perché lo consideri bello? -
Quello non mi segue, è normale, si sente una “mente”, è sicuro di sé e mi fa:
- Ora voglio fare un cristo di due metri con un pene alto così! - e allarga le braccia per indicarmi quanto.
- Ma non c’è bisogno che ti impegni tanto.. - rispondo, ormai a corto di pazienza.
- A fare che? - chiede lui.
- Non te lo posso dire - e me ne vado prima che mi scappi di bocca: “se vuoi bestemmiare Dio basta che ora ti guardi allo specchio.” Sono un sostenitore entusiasta della terapia dello specchio.
Fatti cinque passi però mi volto e gli grido: - l’Arte è ben altra cosa! -
Già, l’Arte è proprio un’altra cosa.
Se manca il rispetto della decenza che preserva dalla volgarità ed è assente quel tipo particolare di sensibilità che è nozione del trascendente, se non c’è il “senso del Sacro”, non si parla né di arte né di artisti: è un assioma, non si discute, non con me, quantomeno.
Babele 2008 …Ma… ma è possibile che non si sia ancora capito cos’è l’Arte? Dopo cinque, diecimila anni di Storia? Ancora si discute, si disserta, ci si domanda chi sia un artista?
Via! Lo spiego in due parole perché non ne servono altre.
Si danno tre casi:
1- se un uomo si interroga e perviene a risposte d’ispirazione trascendente, intelligenti ed emotivamente coinvolgenti è un artista.
2- Se si dà risposte solo intelligenti e costruttive è uno scienziato.
3- Se le sue domande sono quiz e le risposte quaquaraquà, è un coglione.
Poi, a completare il quadro c’è un’ultima fetta di umanità che non so bene dove collocare, perché è fatta da persone che di domande non se ne fanno per niente. Non si fanno domande, ma hanno già pronte, non si sa come, le risposte e per quanto anomala e incomprensibile sia la cosa, appartiene a questa specie subumana una moltitudine di soggetti, mimetizzati da esseri pensanti, diffusi indiscriminatamente tra tutti i ceti, gli ordini e le professioni conosciute.
Quanto mi ha disturbato nella vita questa genia di benpensanti! Quelli che ogni volta che avevo scelto d’espormi per dare testimonianza delle mie convinzioni in difesa di qualche sacrosanta ragione mi hanno preso sottobraccio come fossi un bambino, dicendomi: “mio caro, devi ancora imparare come va il mondo”.
Ma guarda! Ci vuole un genio per capire questa cosa! Saprò bene come và questo mondo… ci combatto tutti i giorni! Ma non sarà anche il caso di chiedersi dove và?
Chiedersi dove è diretto il treno sul quale si viaggia è domanda oziosa per questa gente.
È capire dove và che non mi piace neanche un po’: ma io si sa, sono strano.
E visto che rimestando in questi argomenti mi si è smosso dentro quello spirito antagonista che segna l’espressione del mio volto, metto alla gogna anche l’idea ch’io debba farmi da parte stendendo tappeti al passaggio di conclamate eminenze altissime, i leggendari mostri sacri di ogni cultura o tradizione: discutiamone, non è tutto oro quel che luce. Sono abituato a portare rispetto solo quando comprendo e tocco con mano il merito e mi piace sempre verificare alla fonte le informazioni.
Non ho un metro per misurare la statura di un uomo, ma non credo alla favola che tra noi esistano giganti che incutono timore: sono storie inventate per tener buoni i bambini che rompono.
Piuttosto divido i miei simili in due squadre: quelli che sono vivi e quelli che sono morti.
Ai morti non parlo perché è tempo sprecato.
Se sono in vena, prego per loro.
Rileggo queste ultime righe buttate giù di getto, d’impulso non controllato: ho in odio sciupare con un’alzata di voce la delicata poesia che coltivo come massimo bene e mi rattrista questa necessità di spaccare il mondo in due con l’accetta, bene-male, la poca diplomazia, la scarsa tolleranza. Sarei tentato di ingentilire le espressioni drastiche, di convertire la rabbia, quando c’è, in distaccata ironia, di lasciare più spazio ai dubbi, d’essere più possibilista, più cauto: magari più simpatico.
Ma qualcosa mi trattiene dal mettere zucchero nelle parole perché, ad esser sincero, non vedo colpa nella durezza quando difende un valore e mi manda in collera la sproporzione quantitativa della arrogante stupidità sulla ragionevolezza.
Il motivo più serio, però, è che mi ricordo che l’uomo non è in vacanza, non sta su questa terra per godersi allegramente la vita in barba al destino che l’aspetta e a tutte le ingiustizie e le tristezze che trova dentro e fuori di sé: piuttosto sta combattendo una guerra e fa una bella differenza se vince o se perde. Per questo mi faccio dovere di chiamare apertamente le cose col loro nome: Dio chiederà conto a me della vita e della morte di un mio fratello e su queste cose non si può scherzare.
D’altronde Dio, proprio perché ci ama, non è tenero con gli artisti, chiede a loro cose che ad altri risparmia: ci svezza sulla neve e ci abitua al digiuno, ci tempra con la fatica e ci prostra con le prove più dure: ci mette davanti allo specchio, ci tiene lì in piedi per tutta la vita e se storniamo lo sguardo per la vergogna, siamo fuori, congedati con disonore.
Ci esalta con incarichi di responsabilità e ci umilia con la questua del pane, ci innamora con le seduzioni più incatenanti e poi ci abbandona in deserti di sale.
Non si possono chiedere carezze a chi esce vivo dal “trattamento”.
E poi non ce l’ho con gli uomini, sono pronto a fare cordata con loro, a solidarizzare, a stringere la mano e ad abbracciare il mio prossimo.
Non è una concessione benevola, è un bisogno: la fraternità è il mio sentimento di casa nel quale trovo sollievo dai sensi di colpa e dall’angoscia del vivere, si pone all’apice della felice speranza di una stabile serenità condivisa.
Ma non posso più soffrire ciò che è causa del disordine esistenziale, quello che sta sui coglioni anche a Dio, che di pazienza ne ha certamente più di me.
Dicono che il peccato originale sia stato l’orgoglio, la presunzione di competere con l’Altissimo, l’arbitrio di concepire un’alternativa all’Assoluto. Ma io mi sono fatto un’opinione personale anche su questo punto: secondo me il veleno contenuto nella mela non sapeva tanto d’orgoglio quanto di stupidità.
Credo che la Stupidità sia il peccato per eccellenza, la madre di tutti i peccati, la radice da estirpare con l’acido: non la sopporto ovunque la trovi.
E voglio essere preciso, su questo punto non devono esserci fraintendimenti: non mi scaglio contro la stupida leggerezza che considero atteggiamento distratto e veniale, anche se pericoloso per accumulo, io ce l’ho con la recidiva, consapevole, ottusa volontà di coltivare la stupidità, di predicarla, crescerci i figli, creare tendenza, perpetuare cultura.
Forse è il caso di citare a certi sedicenti artisti, professori emeriti e politici alla moda che tessono meravigliosi abiti fatti d’aria, la sfida con la cartina al tornasole dell’apostolo Paolo, dottore della Chiesa:
“Mostrami la tua fede senza le opere…ed io, con le mie opere, ti mostrerò la mia fede!”
Comodo e facile esibire buone intenzioni a parole: abiti immaginari che non coprono le indecenze di quel re della favola che sfila per la città stupidamente in mutande tra gli applausi degli stupidi.
Si, non bastano le parole, ovviamente ci vuole ben altro per vestire un’intenzione: “azzardo” a dire che ci vogliono i fatti? quelli che sono il frutto dell’impegno e della fatica? Il corpo che ci identifica? quel lavoro che Dio ha benedetto e che ci merita il pane?
“Dai frutti conoscerete l’albero.”
Queste sì sono parole che non passano.
A forza di millantato credito vedo trasformata la via maestra dell’Arte in una palude che ribolle miasmi.
Dopo il tautologico apporto dell’arte di denuncia, ormai doppiata abbondantemente dalla realtà decadente e pervertita dei tempi che si denuncia ampiamente da sola, senza bisogno di zelanti sponsor, oggi si è giunti a predicare addirittura il nulla, l’inconsistenza, la vera “aria fritta”, come diceva mio padre, uomo pragmatico e fattivo, che tagliava corto con i discorsi.
È grave questo fatto perché se all’Arte compete il compito di educare la sensibilità al gusto del bello e del vero che è sempre sinonimo di buono e giusto, si capisce chiarissimamente la responsabilità che incombe sui venditori di fumo e dei manipolatori del giudizio.
Si capisce con la ragione e si constata con l’esperienza: è l’evidenza di tutti i tempi di crisi, quando i nodi vengono al pettine.
Negare l’evidenza ho proprio idea che sia un grave peccato:
l’evidenza è l’ultimo avvertimento.
Poi si scatena il diluvio.
Serro le labbra e scuoto la testa: no! qui ci vuole fermezza.
Fermezza ed idee chiare:
a nessuno è lecito l’arbitrio
(e nessuno è tenuto all’omertà ed alle connivenze)
C’è stato uno sbaglio all’inizio dei tempi, evitiamo di far finta di non saperlo: non paga andare avanti su quella strada.
La vita, si sa, è un viaggio, una straordinaria ed irripetibile avventura.
Mi chiedo: ma è mai esistito un viaggiatore sano di mente senza una bussola?
Perché si deve sempre ricordare l’ovvio?!
Quanto tempo sprecato in smemoratezze circolari che ci riportano sempre al punto di partenza e che tristezza se penso che avremmo anime capaci d’Amore.
Ora basta, lascio queste pagine ad uso d’altri e torno al cavalletto per una gioiosa ispirazione colorata d’estate.
Presto guardando dentro, attraverso i colori per me si aprirà una finestra, una porta stellare.
Sarò affacciato sull’altrove.
Max Loy
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