A cento metri da me è passata una grande vela e se n’è andata, poi in senso contrario ne è passata un’altra, poi è arrivato un elicottero che ha fatto un cerchio su di me che non ho capito e poi non è passato più nessuno e c’è stato un grande silenzio in cui non è successo niente che io sappia.
Solo a tratti, trattenendo il respiro, riuscivo a percepire voci rapite dalla brezza alla lontanissima riva o a qualche natante invisibile, voci così flebili da poter essere confuse con altre voci alla deriva, strappate alle rive ancor più lontane della memoria.
Sono rimasto così, cullato dolcemente dal mare e mi sono lasciato portare dal vento, andando alla deriva per un’ora con la mente sempre più vuota. Poi ho aperto gli occhi, ho sollevato la testa, mi sono messo a sedere, non troppo sveglio, e ho preso a rimirare la simmetria dei piedi nel loro alloggio a prua, i peli imbionditi delle gambe e le mie mani scure contro il giallo della canoa. Tutt’intorno acqua, acqua, acqua, acqua…. Poi ho visto qualcosa galleggiare, con due colpi di remo mi sono avvicinato e ho raccolto una canna. L’ho sollevata svuotandola dell’acqua che la riempiva, invadendo tutti i suoi scomparti come camere stagne di un relitto e, dal foro in testa ho sentito il lieve risucchio dell’aria che prendeva il posto del mare, l’ho immersa ed è uscita l’aria, e poi ancora e ancora, su, giù, dentro, fuori, meravigliato di questo prodigio della fisica ed altrettanto della mia idiozia, ho continuato a trastullarmi con l’insegnamento più esplicito che mi stava impartendo Dio:
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