1996
Link di Max Loy
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percorso professionale
A N T O L O G I A
sabato 31 marzo 2012
Piccolo saggio sulla Pittura - PARTE PRIMA - continua (8) ...
Un itinerario per trasformare le idee in fatti:
premesse e
fasi di costruzione di un quadro
1996
1996
La grande delusione di tutti gli artisti, ma
specialmente dei neofiti e dei
dilettanti è di sentirsi ribollire nell’animo il fuoco di un vulcano e non
riuscire a rappresentare altro che un’immagine didascalica e fiacca. Può
nascere il dubbio di essere come l’opera che abbiamo concepito: didascalici e
fiacchi. Bene, questo è un dubbio costruttivo, un dubbio da esaminare con
attenzione. L’arte è il nostro specchio, ricordatelo. Crescere come artisti
equivale a crescere come uomini ed è più facile che un uomo colto, equilibrato
e virtuoso non sia un cattivo artista, se educato tecnicamente.
(1970)
Un altro motivo di frustrazione può essere un
improvviso ed imprevisto calo di energia: ci sentiamo stanchi, incapaci di
portare avanti un lavoro troppo complesso e difficile. Non bisogna mai prendere
delle decisioni in questi momenti. La cosa migliore è limitare il nostro lavoro a piccole cose, applicarsi alla
ricerca analitica, per esempio curare con attenzione piccoli dettagli e
rimandare le scelte e le valutazioni di sintesi ad un umore migliore. Potrei
anche suggerire di lasciar perdere ogni cosa e fare una passeggiata, però credo
sia meglio non mollare del tutto la presa ed il coinvolgimento con il lavoro:
la mente deve abituarsi alla disciplina, deve fare la sua parte nel tempo che
abbiamo a disposizione. E’ facile viceversa non sentirsi mai abbastanza in
forma per continuare. Non è nemmeno utile cambiare soggetto: le difficoltà non
son nel soggetto, ma in noi. Rispunteranno daccapo. Una variante allo scoraggiamento
per calo di energia è la luce intermittente: vedo, non vedo. Esasperante! Io
soffro spesso di questo disturbo del senso critico. Sono lì, tutto contento di
costruire il capolavoro, quando all’improvviso lo perdo, lo sento pesante,
sciatto, vuoto, didascalico, noioso e brutto. Che devo fare? Com’è veramente
quest’opera che sta nascendo? In questo caso cerco un giudice esterno, cerco il
confronto. Passo in rassegna le mie opere passate, che ho giudicato buone ormai
da tempo, e le raffronto con il quadro in lavorazione. Allora posso avere due
reazioni opposte: nell’accostamento si
chiarisce cosa c’è che non va, mi faccio i complimenti per tutte le opere che
sono andate a segno in passato e mi rimetto con determinazione al cavalletto;
oppure non vedo differenze sostanziali e finisco con lo screditare anche il mio
lavoro precedente. A questo punto è saggio e prudente fermarsi, riprendere il
lavoro in un altro momento, magari mettendoci in mezzo una notte
di sonno e di sogni.
(1970)
martedì 27 marzo 2012
I fiori
I fiori
della primavera sono i sogni dell’inverno raccontati,
la
mattina, al tavolo degli angeli.
Khail Gibran
domenica 25 marzo 2012
Silenzio
Il silenzio in poesia non indica e non significa il punto più contenuto della parola,
ma il vertice di una condizione in cui l’ascolto risulta massimamente acuito.
“La parola sorse
da crateri di luce
e creò un mondo sradicato
dal proprio principio, fino
alla fine dei tempi irripetibile
Ma tu ascolta
solo la parola che scaturisce
dalle fenditure del tempo
e trapela dai circuiti del silenzio
nel medesimo fremito celando
carne e polvere”
(Tomaso Kemeny - Il silenzio, cit., pag. 79).
Tutta la storia
del pensiero valorizza il silenzio e la solitudine come fonti di ispirazione,
sorgenti di idee, strumenti di creatività, condizioni indispensabili per la
creazione artistica. Se l’incontro con gli altri è indispensabile, l’incontro
con se stessi è altrettanto necessario. Il tempo della solitudine è
un’occasione per riflettere sul modo di vivere le nostre relazioni umane e di
vegliare sulla loro qualità.
Colui che vive
l’inevitabile solitudine con serenità scopre nel medesimo tempo la sua capacità
di andare serenamente verso gli altri
tratto da un testo di Pier Paolo
Caserta
sabato 24 marzo 2012
Oltre l’apparenza dei luoghi comuni
Chi pensa davvero deve imparare ad andare oltre l'apparenza dell'ovvio
e a immergersi nelle profondità abissali.
(Romano Guardini)
I luoghi comuni sono idee generali, valori, giudizi condivisi dall'uditorio, anche se non sempre in modo consapevole. Proprio la loro «ovvietà» tende a preservare, nascondendola, l’influenza dei valori e delle credenze di base. Nascono quindi da enunciati che rispondono o pretendono di rispondere a verità che però non serve quasi mai citare, che si tralasciano perché scontati o, viceversa, si enfatizzano senza argomentarli quando sembra che qualcuno li neghi.
I luoghi comuni sono la presunta verità banale delle cose, utili a semplificare il nostro rapporto con la realtà.
Ma c’è da chiedersi: la verità è banale?
Quante sono le cose che “crediamo di sapere”, ma in realtà non conosciamo?
L’apparente “comodità” dei luoghi comuni, dei preconcetti e delle “false certezze” è spesso anche una sonnolenza della mente che può portare a una perniciosa atrofia. O a un brusco e sgradevole risveglio dalle ambiguità dell’ignoranza.
L’essere presenti al mondo, il vivere ci impone il risveglio della mente, l’esercizio dell’innata vocazione umana dell’esploratore, l’osservazione della realtà con occhi attenti, eludendo l’ovvio, penetrando oltre la banalità dell’apparenza. Un passo al di là delle cose.
Esplorare le sconfinate terre della nostra vita, per conoscerle, abitarle e coltivarne la bellezza ... che non è mai ovvia.
martedì 20 marzo 2012
Piccolo saggio sulla Pittura - PARTE PRIMA - continua (7) ...
Un itinerario per trasformare le idee in fatti:
premesse e
fasi di costruzione di un quadro
1996
“E’ troppo difficile: io non ce la faccio!” Quante volte abbiamo
pronunciato, in silenzio, dentro di noi, questa frase rinunciataria? Direi
tutte le volte che ci siamo imbattuti in una difficoltà. Anni fa mi sono levato
la soddisfazione di contrastare l’impazienza e l’incostanza imbarcandomi
nell’avventura più pazza del mondo ....
Ho imparato molto dai contrattempi, dagli sbagli, dalle
difficoltà che mi hanno trascinato lì dove non sarei mai andato di mia
spontanea volontà. E’ importante però porsi nello spirito giusto, così da non
subire passivamente e negativamente i contrattempi.
Il contrattempo per eccellenza è di avere voglia di esprimere “qualcosa”
e non sapere cosa. E l’altro contrattempo classico e più normale è di avere una
nitida ispirazione, ma non sapere come realizzarla. Questi “blocchi” in
partenza sono i più difficili da superare in assoluto. Nulla ci viene in aiuto
e ci sentiamo completamente esposti alla frustrazione di non saper indirizzare
la nostra potenzialità di cui cominciamo subito a dubitare.
Avviare un’opera chiede più energia che afferrare per la coda un
sogno che si sta dileguando. Le emozioni o non hanno volto o sono del tutto
inesprimibili ed è veramente difficile trovare il giusto medium per incarnarle.
Non solo: muovere il primo passo significa aver operato una eccezionale sintesi
sull’argomento, aver trovato il bandolo di una matassa aggrovigliata, aver dato
un nome al mistero ed averlo tradotto in linguaggio. Il primo passo è una cosa
enorme, chiede una energia che conviene chiedere in prestito alla banca dell’energia
che è la vita, o se volete l’Amore, o se volete Dio.
E’ il momento del silenzio e dell’ascolto. La mente dev’essere
messa in libertà, lo sguardo si deve poter posare dove vuole, non dobbiamo
metterci fretta. Tuttavia dovremo anche porre un limite a questi preliminari e
stabilire che ad un certo punto prenderemo la decisione di fare un gesto che ci
comprometta. Rompere il ghiaccio chiede sempre coraggio e forse una certa incoscienza,
ma senza questo primo passo non si costruisce nulla.
Nei casi in cui definire i contorni delle idee risulti
particolarmente difficile può essere utile concentrarsi su questioni astratte
come la scelta del formato, il colore dominante, la rappresentazione di qualche
dettaglio marginale, l’equilibrio delle masse colorate. State in ogni caso
certi che finirete col concepire qualcosa che avete già fatto e questo perché la
natura è giusta e non fa salti. Se non avete mai fatto nulla, concepirete un
nulla virgola uno, per darvi appuntamento alla volta successiva con un
clamoroso uno virgola due.
E’ saggio quindi non pretendere l’impossibile, così eviteremo le
grandi delusioni.
La conoscenza
Ogni conoscenza dell'altra persona è reale solo se si basa sul fatto che si provi dentro di noi ciò che prova l'altro. Se ciò non accade, se l'altro rimane un oggetto, io posso sapere molto su di lui ma non lo conosco.
Goethe ha espresso molto sinteticamente questo tipo di conoscenza:
"L'uomo si conosce solo interiormente
ed è consapevole di se stesso nel mondo.
Ogni nuovo oggetto veramente conosciuto
rivela una parte di noi"
Tratto da "La rivoluzione della speranza" di Erich Fromm
domenica 18 marzo 2012
Per essere un artista
Non v’è che un mezzo. Guardare dentro di sé. Interrogarsi sul motivo che intima il ricorso all’arte; verificare se esso protenda le radici nel punto più profondo del nostro cuore; confessare a noi stessi: soffriremmo, se ci fosse negata l’Arte? Questo soprattutto: domandiamoci, nell’ora più quieta della notte: devo creare? Frughiamo dentro di noi alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se potremo affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruiamo la vita secondo questa necessità. La vita, fin dentro la nostra creazione più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza. Allora avviciniamoci alla natura. Allora cerchiamo, come un primo uomo, di dire ciò che vediamo e viviamo e amiamo e perdiamo.
Perciò rifuggiamo dai motivi più diffusi verso quelli che ci offre il quotidiano; descriviamo le nostre tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriviamo tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usiamo, per esprimerci, le cose che ci stanno intorno, le immagini dei nostri sogni e gli oggetti del ricordo. Se la giornata ci sembra povera, non accusiamola; accusiamoci invece, diciamoci che non siamo abbastanza poeti da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri. E se anche ci trovassimo in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai sensi i rumori del mondo, non ci rimarrebbe forse la nostra infanzia, la nostra giovinezza, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolgiamo lì la nostra attenzione. Cerchiamo di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la nostra personalità si rinsalderà, la nostra solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri. E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorge l’arte, allora non ci verrà in mente di chiedere a qualcuno se sia una buona creazione. Né tenteremo di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi vedremo il nostro caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della nostra vita. Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità. È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è.
Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.
Lo squarcio
MAX LOY come BERNANOS
«squarciare il velo» della banalità per
penetrare nel cuore delle cose.
Per Bernanos, il peccato più grave è quello contro la speranza[xvi] e
la speranza vera ha radici molto profonde, scavate nell’intimo della persona.
Lo scrittore vede con chiarezza l’avanzare di una società che ogni giorno
di più è «una cospirazione universale contro ogni forma di vita interiore»[xvii]Dunque
il grande attentato contro l’uomo è la «despiritualizzazione», che equivale a
mortificare la persona, a ridurla, a cosificarla. Chi non ha una vita
interiore, chi «vive alla superficie di se stesso»[xviii] non
può che sperimentare il suo vuoto e allora ha bisogno di rivestirsi di una
maschera, ha necessità di ricoprire un ruolo, di ritagliarsi un personaggio.
E con superficiale incoscienza si rinuncia al proprio volto, alla propria
identità singolare. Si rinuncia a dire la propria parola, scrivendo l’esistenza
come un «grazioso pezzo di letteratura»[xix]. Si è
incapaci di sperare e di avere il coraggio di «ritornare all'essenziale».[xx]
martedì 13 marzo 2012
Le risposte dell'artista
Di tanto in tanto approfitto della conoscenza diretta dell'artista Max Loy per sottoporre alcune domande che mi giungono dal pubblico:
In genere nei suoi quadri astratti c'è una consueta costruzione topologica oppure si tratta di equilibri di linee e forme dettati dal "caso"?
Caratterialmente sono pigro, sto comodo dentro le situazioni varate, però sono anche curioso ed irrequieto ed eticamente non mi concedo mollezze deleterie. L'ambito nel quale mi muovo, scelto allo scopo, mi è d'aiuto all'uscire dai miei luoghi comuni attingendo alle premesse dettate dal caso.
Nelle rappresentazioni astratte sono riprodotti gli aspetti percettivi dei fenomeni naturali e/o spirituali. In quale misura si pone la questione di raggiungere il destinatario del suo lavoro?
In genere nei suoi quadri astratti c'è una consueta costruzione topologica oppure si tratta di equilibri di linee e forme dettati dal "caso"?
Caratterialmente sono pigro, sto comodo dentro le situazioni varate, però sono anche curioso ed irrequieto ed eticamente non mi concedo mollezze deleterie. L'ambito nel quale mi muovo, scelto allo scopo, mi è d'aiuto all'uscire dai miei luoghi comuni attingendo alle premesse dettate dal caso.
I miei quadri nascono dall'improvvisazione, si affidano all'estro del momento ed infine si sottomettono al vaglio della ragione perchè mi piace sentirmi persuaso e responsabile d'ogni mia azione: ottengo così i miei inediti firmati.
Nelle rappresentazioni astratte sono riprodotti gli aspetti percettivi dei fenomeni naturali e/o spirituali. In quale misura si pone la questione di raggiungere il destinatario del suo lavoro?
Pongo la massima attenzione all'uso del linguaggio e, come quando scrivo, cerco l'esattezza dei termini, la brevità e la coerenza logica delle frasi senza tuttavia rinunciare alle suggestioni contemplative che amplificano e moltiplicano i livelli del sentire. Questo può essere d'ostacolo ad una lettura ordinaria, ma quando si dialoga si è sempre in due ed io mi aspetto che anche il mio interlocutore si impegni.
Utopia
Fiutò nell’aria un vago profumo di fieno. Il cappello di paglia
comprato a Venezia, era appeso all’applique, guarnito di un nuovo nastro:
regalo della moglie.
Per un attimo si sentì felice. Fece tre passi e si fermò al
centro della stanza, sotto il lampadario di ferro battuto che pendeva un po’
sacrificato per mancanza di altezza, da un controsoffitto. Si pose di fronte al
grande ritratto di famiglia prospiciente il portone d’ingresso, fece mezzo
passo di lato per evitare il riflesso della finestra e lì, mani sui fianchi,
rimase a guardarlo in silenzio per alcuni minuti abbastanza lunghi. Di quello che
era nel complesso un quadro austero, d’impostazione patriarcale, ora non
considerava che lo sfondo, l’apertura verso la luce: un terrazzo che si
affacciava su un giardino degradante verso una baia sfumata in tinte azzurre e
rosa. Si avvicinò alla tela e con il palmo aperto della mano percorse
trasversalmente la superficie con uno di quei gesti che provengono dal limbo
della mente.
Poi volse lo sguardo della parete accanto: una scena conviviale.
Nuovamente lui, la moglie e i figli insieme ai parenti più stretti riuniti
intorno ad un tavolo, a pranzo, in una serena conversazione. Quadro complesso, impegnativo,
stracarico di significati. Diciotto ritratti, fisionomie ed atteggiamenti
tratti da foto scattate qua e là negli anni, ora partecipi di una comune
atmosfera, una coerente luce ed una ricostruita, abile e convincente geometria
di sguardi in dialogo tra loro: manipolazione fantastica della realtà, strano
connubio di verità e di immaginazione.
UTOPIA
Tratto
dal libro di Max Loy “Racconto in bianco e nero”
domenica 4 marzo 2012
Il Vascello
Immaginate se un giorno, in un tardo pomeriggio estivo,
completamente rilassati sulla spiaggia, improvvisamente e con incredulità
crescente, vi pare di intravedere nel lontano orizzonte un vascello con tutte
le vele a brandelli che, nonostante la completa assenza di venti, sembra
procedere rapidamente verso una sconosciuta destinazione!
Il porto sconosciuto
Il mio veliero naviga in un mare
che conduce ad un porto sconosciuto
dove a ciascuno tocca d’approdare
dopo che il grande giro avrà compiuto.
Quasi improvviso il porto in fondo appare
allo sguardo impaurito o compiaciuto
del nocchiero che niente ci può fare
se di fermarsi il tempo è ormai venuto.
Stanche le membra al navigare sento,
del mio veliero l’ancora allor poso
in quelle acque calme e senza vento
dove per tutti il male ed il tormento
si placano nel cuore ormai corroso.
Quivi il veliero troverà riposo …
che conduce ad un porto sconosciuto
dove a ciascuno tocca d’approdare
dopo che il grande giro avrà compiuto.
Quasi improvviso il porto in fondo appare
allo sguardo impaurito o compiaciuto
del nocchiero che niente ci può fare
se di fermarsi il tempo è ormai venuto.
Stanche le membra al navigare sento,
del mio veliero l’ancora allor poso
in quelle acque calme e senza vento
dove per tutti il male ed il tormento
si placano nel cuore ormai corroso.
Quivi il veliero troverà riposo …
modello realizzato da Max loy
S. Felipe - Vascello
di I° rango Spagonolo - 1693
Quando, nel febbraio del 1693, dai cantieri spagnoli di La
Coruna scese in mare il San Felipe, la potenza navale iberica non era più
quella che aveva trionfalmente solcato i mari di tutto il mondo.
Costruito senza economia di materiali, con un fasciame esterno
ed uno interno, il San Felipe aveva uno scafo possente e massiccio. Il
rivestimento che copriva lo scheletro della nave esterna era formato da tavole
di quercia per i “torelli”, cioè per le prime due tavole che andavano ad
incastrarsi nella massiccia trave della chiglia, per i “ corsi del bagnasciuga”
e cioè per la zona centrale dello scafo, e per i "cinti", le tavole
più vicine al ponte di coperta.
La lunghezza di tali tavole, i “corsi” in linguaggio tecnico,
era di 8 m, con uno spessore di 25 cm. Gli altri elementi del fasciame erano
realizzati in olmo, quercia e pino. I lembi dei vari corsi, per effetto della
dilatazione del legno e delle sollecitazioni alle quali era sottoposta la nave,
tendevano inevitabilmente ad allargarsi o a restringersi, pregiudicando cosi
l’impermeabilità dell’intera struttura. Per ovviare a tale inconveniente, lo
scafo del San Felipe venne calafatato introducendo fra una tavola e l’altra
stoppa imbevuta di pece o catrame. L’intero scafo, inoltre, venne foderato con
una mistura formata da catrame vegetale e resina estratta dalle conifere; si
sovrappose poi a tale strato uno spessore di "borra" , formato da
pelli di animali mescolato a vecchio cordame incatramato e infine, furono
inchiodate sul tutto tavole di rovere dello spessore di 2 cm. La chiodatura di
tali tavole venne eseguita con chiodi a testa larga, disposti molto vicini l’
uno all’ altro in modo da coprire quasi interamente la carena e difendere
quindi il legno dagli attacchi degli agenti marini.
Il San Felipe era armato con cannoni in bronzo, preferibili a
quelli in ferro per la loro maggiore resistenza e maneggevolezza. Interessante,
per avere una piu’ esatta visione del San Felipe , è osservare le dimensioni
dei cavi delle ancore , dette “gomene” o “gomone”: le due ancore da 80 quintali
erano collegate con gomene del diametro di 60 cm, mentre le due ancore minori,
di 40 quintali, erano manovrate da gomene di 34 cm di diametro. Le gomene di
maggior diametro erano dette gomene “maestre” , quelle minori “seconda gomena”
o di “afforco”. Per salpare le ancore, il San Felipe disponeva di due argani;
quello maggiore era costituito da due campane, una sul primo ponte e una sul
secondo . Si poteva cosi manovrare l’ argano su due piani contemporaneamente e
raddoppiare la forza applicata.
Il San Felipe non partecipò ad alcuna azione bellica e venne
demolito nel 1736.
Tipo: Vascello a 3 ponti di
1 classe
Varo: 1693
Lunghezza : m 62.80
Larghezza : m 16.40
Immersione : , m 6.50
Dislocamento : t 1.890
Armamento : Prima batteria
: 50 cannoni da 32 libbre ; Seconda batteria : 30 cannoni da 24 libbre ; Terza
batteria : 22 cannoni da 18 libbre ; 8 colubrine da 9 libbre
Equipaggio : 846 uomini
tratto
da: www.modellismo navale.it
sabato 3 marzo 2012
Piccolo saggio sulla Pittura - PARTE PRIMA - continua (6) ....
Un itinerario per trasformare le idee in fatti:
premesse e
fasi di costruzione di un quadro
Chi guiderà la nostra mano, chi ispirerà i nostri “tocchi da maestro” sull’opera finita? Che sia il caso? E il caso è Amore? E l’Amore cos’è? Chi è?
“E’ meglio un giorno nella tua casa che cent’anni nelle dimore dei potenti ...” canta un salmo. Un Artista ha composto questo salmo, mille e mille anni fa.....
Ho detto un’insensatezza dicendo che dipingere è divertente e l’ho fatto di proposito, perché riflettiate sullo speciale appagamento che dona l’arte. L’Arte più sublime, quella che affascina è sempre contemplativa, seria, distaccata, distante, ieratica, sacra. Non è mai comica, per esempio, però conosce il sorriso della Gioconda, e non gronda mai sangue; anche nelle scene più violente e brutali annota un riflesso, una luce, un colore, cerca l’equilibrio, la composizione, la contemplazione distante.
Direi che l’Arte è un colloquio tra noi e qualcuno: l’Arte presuppone un interlocutore, ma non è detto che l’interlocutore di un artista siano gli uomini. Anzi, di solito gli uomini deludono profondamente l’animo degli artisti. L’artista dipinge per qualcun altro, colloquia misteriosamente con qualcuno, vive con qualcuno nel cuore e nella mente. Provate e saprete.
Scrivo queste cose mentre con la coda dell’occhio sto guardando un particolare di un mio quadro posto a terra, sopra un altro quadro addossato al muro. All’interno di un ambiente in penombra filtra l’azzurra luce dell’ultima ora del giorno. Oltre una barocca tenda di pesante velluto, un cielo debolmente rosato all’orizzonte si allontana su un paesaggio a quinte sfumate: acqua, alberi, lontananze incerte e brumose, poi montagne, poi luce, poi la luna ... poi silenzio.
Per chi ho dipinto questo quadro?
L’artista non è mai avaro, non tiene il suo oro per sé, ama condividerlo, farne dono.
A volte, camminando sul crinale di un monte, nelle mie passeggiate da solitario, mi fermo in contemplazione dell’orizzonte lontano. Ascolto in silenzio la voce del vento: in quel vasto spazio che si apre alla vista non c’è nessuno, ma io intravedo, come in un miraggio, una lontana isola, la cerco nel punto più distante dell’orizzonte, dove la luce è più chiara: laggiù siam tutti noi. Me lo ricorderò dipingendo un altro cielo per una nuova comunione.
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