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A N T O L O G I A
mercoledì 26 dicembre 2012
Venire al mondo
Noi non siamo un punto d’inizio.
Esistiamo perché qualcuno ci ha amati.
Fin dalla nascita la vita è un
rapportarsi. La vita stessa, in quanto è data e ricevuta, è un rapporto. Essere
messi al mondo significa essere posti originariamente in una rete di
reciprocità: relazioni di dipendenza, relazioni di appartenenza, relazioni di
corrispondenza.
La vita è qualcosa di ricevuto e di
ciò siamo spontaneamente grati. Nel suo inizio, la vita è relazione di
intimità, è gratitudine: ci si sente anelli di una catena, parte di un
tutto. Ogni nascita presuppone un’antecedenza
e, nel momento in cui accade, si realizza inevitabilmente come vincolo, e lungi
dall’essere caso, svela l’ineludibile originarietà del legame. Perciò la catena non è solo figura della
continuità, segno della reciprocità, essa è anche ceppo, prigionia. Di qui la
tendenza all’antagonismo e allo strappo, alla volontà di un’assoluta
indipendenza, di qui l’ineliminabile tensione tra il sentirsi parte ed il voler
essere per se stessi. E tutto questo si svela già “al seno”, da intendere qui
come simbolo e metafora della fonte di ogni esistenza. L’attaccarsi al seno
rinvia allo staccarsi. Infatti solo nel venir meno della fusione si dispiega la
differenza. Ma la distanza non rompe la relazione, ma libera le differenze,
istituisce la reciprocità.
Nel “venire al mondo” si percepisce la vita come
propria, ma anche come data: la grazia e la dipendenza, il dono e la
sudditanza. La nascita non è dunque solo l’inaugurarsi di una relazione, ma è l’aprirsi
di una relazione d’amore. Esisto perché qualcuno mi ama e, se mi abbandonasse,
perirei. La relazione che la separazione della nascita inaugura è quella aperta
tra chi nasce e, in generale, il mondo.
Tratto liberamente da La felicità di questa vita di Salvatore
Natoli.
martedì 11 dicembre 2012
Riflessioni
Il sogno è la piccola porta occulta che conduce alla parte più nascosta
e intima dell’anima aperta sulla originaria notte cosmica che era già anima
molto prima che esistesse la coscienza dell’io. La coscienza divide, ma con il
sogno noi penetriamo nell’uomo più profondo universale, vero ed eterno, ancora
immerso nell’oscurità di quella notte primitiva in cui egli era tutto e tutto
era in lui, nella natura indifferenziata e priva di ogni io. Da questa
profondità che collega tutto, nasce il sogno.
Occuparsi dei sogni significa prendere coscienza di sé. L’arte
di interpretare i sogni non si può apprendere dai libri, nessuno che non
conosca se stesso può conoscere l’altro, ed in ognuno vi è “un altro” che non
conosciamo, che ci parla attraverso il sogno, che ci comunica un’immagine
diversa da quella che abbiamo di noi stessi.
Grande è la
responsabilità umana verso le immagini dell’inconscio, sbagliare a capirle o
eludere la responsabilità morale che abbiamo verso di esse significa privare l’esistenza
della sua interezza, essere condannati ad una vita penosamente frammentaria.
Anche le cose apparentemente prive di senso vanno fatte seriamente, esigono un
impegno ed una dedizione totali.
Il sogno è la porta verso inimmaginabili lontananze, il mondo
segreto della propria solitudine, dove non ci sono insegnanti, né scuole, dove ognuno
può essere senza dover chiedere nulla. Lì tutto è molto solenne e si avverte la
necessità di essere gentili e silenziosi, perché quello è il mondo di Dio.
Questa vita, infatti, è solo un frammento dell’esistenza. Vi è
invece uno stato di beatitudine della condizione non temporale dove presente,
passato e futuro sono una cosa sola. E’ decisivo che l’uomo sia orientato verso
l’infinito; è il problema essenziale della sua vita. Quanto più un uomo corre
dietro ai falsi beni e quanto meno è sensibile a ciò che è essenziale, tanto
meno è soddisfacente la sua vita; si sentirà limitato, perché limitati sono i
suoi scopi. Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un
legame con l’infinito, i nostri desideri ed i nostri atteggiamenti mutano. Ma
possiamo raggiungere il sentimento dell’infinito solo se siamo differenziati al
massimo livello possibile. Se so di essere unico nella mia combinazione individuale
e cioè limitato, posso prendere coscienza anche dell’Illimitato. Perciò, l’uomo
ha bisogno per prima cosa di conoscere sé stesso, guardando senza reticenze
quanto bene può fare ma anche di quale infamia è capace.
Ciascuno è seguito da un’ombra, meno viene integrata nella vita
cosciente dell’individuo, più diventa nera e intensa. Nessuno sta fuori dalla
nera ombra collettiva dell’umanità, sarà bene quindi avere una immaginazione
del male; perchè soltanto gli sciocchi possono trascurare le premesse della
propria natura. Sono accadute ed accadono tutt’ora cose terribili, ma sono
sempre gli altri che le hanno fatte. Noi portiamo invece nel nostro essere
invariate ed inamovibili la capacità e l’inclinazione a ripetere cose simili. Siamo,
in forza del nostro essere umani, criminali in potenza.
L’unica forza unificante è l’amore, qui si trovano il massimo ed
il minimo, il più remoto ed il più vicino, il più alto ed il più basso, e non
si può mai parlare di uno senza considerare anche l’altro. L’amore soffre ogni
cosa e sopporta ogni cosa. Queste parole dicono tutto ciò che c’è da dire, non
c’è nulla da aggiungere, perché noi siamo, nel senso più profondo, le vittime o
i mezzi e gli strumenti dell’Amore cosmico.
Essendo una parte l’uomo non può intendere il tutto: è alla sua
mercè. L’Amore non viene mai meno, sia che parli con la lingua degli Angeli,
sia che tracci la vita della cellula con esattezza scientifica, risalendo fino
al suo ultimo fondamento.
Se possiede un granello
di saggezza l’uomo deporrà le armi e chiamerà l’ignoto con il nome più ignoto,
cioè col nome di Dio. Sarà una confessione di imperfezione, di dipendenza, di
sottomissione, ma al tempo stesso una testimonianza della sua libertà di scelta
tra la verità e l’errore.
Pensieri di C. G. Jung
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