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giovedì 19 maggio 2011
Il quadro astratto, metafora e pedagogia della relazione
Cosa è difficile nell’approccio con un quadro astratto? Il dover mettere in discussione le proprie mappe mentali; l’interrogarsi coraggiosamente sulla gestione della propria ed altrui libertà; la considerazione del rispetto e dello stimolo dell’alterità.
Il lasciare che le cose si mostrino così come sono implica modificare lo sguardo ed agire la volontà di non opporre resistenza a questo introdursi. Implica la sospensione del giudizio ed è questo che ci conduce nell’esperienza dell’altro, riducendo l’io, arginando il desiderio di invadenza e così agendo e pensando da un altro luogo.
È una pratica questa, un esercizio non facile, anche perché ogni dato che emerge è già inscritto in una nostra cornice interpretativa ed operativa.
Va fatta una rinuncia in questo atto del Vedere e la rinuncia sta in un dire "questo vuol dire quello" in assoluto, e non piuttosto “questo vuol dire quello” per me. Questa pratica non ci appartiene naturalmente, perché siamo propensi a collocare gli accadimenti (interni ed esterni) dentro una catena di rimandi.
Ed allora come fare? Il guardare ha bisogno di spegnere l’invadenza della luce attraverso un ascolto silenzioso: come stare in una domanda rinunciando a dare la risposta. Perciò ascoltare le parole che i quadri astratti ci rivolgono, liberate da uno sguardo (il nostro) richiede un allontanamento, una distanza da sé, distanza che dobbiamo presupporre perché ci sia relazione.
Se è vero, come è vero, che la coscienza della propria identità-unicità si realizza attraverso la comprensione (osservazione-conoscenza-accettazione) della diversità altrui (perché solo nel riconoscere l’altro da me posso riconoscere me), il quadro astratto diventa senza dubbio metafora e pedagogia della relazione.
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